Support a sister in visual arts – Loredana Denicola

La fotografia documentaria come dialogo per superare il trauma.

Loredana Denicola racconta ‘love, sex and relationships’: osservazione e riflessione della sua storia, la storia di tante (troppe) donne

love, sex and relationship è un progetto multi displinare che comprende fotografie e video raccolti da Loredana Denicola (fotografa sociale, documentarista e multidisciplinare Italiana attualmente residente a Londra). Il progetto, sviluppato con oltre 40 ore ore di interviste e anticipato nel 2019 da un video trailer di quasi sei ore, comprende una raccolta di conversazioni tra lei stessa e gli altri sviluppato attraverso un particolare progetto di documentazione video, fotografia e scrittura. love, sex and relationship, che comprende anche un libro non ancora pubblicato, nasce con lo scopo di avviare un dialogo con se stessi e capire come l’abuso emotivo e psicologico, esattamente come l’abuso fisico e sessuale, possa essere distruttivo per una persona. L’intervista con Loredana Denicola parte dal progetto, per arrivare a parlare di lei stessa, del suo passato, delle sue emozioni, della fotografia e del dialogo come terapia, delle sue paure e di come affrontare l’abuso psicologico. Il progetto è complesso, ma illuminante.

Uno degli obiettivi di love, sex and relationships è di aiutare le donne a diventare più consapevoli del proprio valore anche grazie alla condivisione della tua esperienza personale. In questo progetto ci sei tu, la tua relazione col tuo ex e la violenza che hai subito. In che modo la fotografia ti ha aiutata ad elaborare l’esperienza della relazione tossica e che insegnamenti ne hai tratto come donna e come artista?”
La macchina fotografica è sempre stata un accesso verso nuovi mondi. Ho voluto avvicinarmi e capire ‘lo sconosciuto’ o ‘lo strano’. Mi interessa anche l’auto-estraniamento, come possiamo tenerci nascosti e sentire vergogna per alcuni aspetti che ci riguardano nel profondo. L’elaborazione dell’esperienza tossica nel libro di love, sex and relationships è un lavoro multidisciplinare. Il progetto è partito con la fotografia, poi si è ampliato fino ad abbracciare anche la video documentazione e la scrittura. Volevo appropriarmi di tutto. Non solo dell’immagine fotografica e in movimento ma anche dei pensieri, gli insegnamenti da trarre, gli sguardi, le confessioni; per non dimenticare. La fotografia è anche condivisione del mezzo e dell’esperienza creativa. Permette di riesaminare tutto: chi siamo, la nostra identità, l’educazione, la religione, la società … Nel lavoro di love, sex and relationships la fotografia, la video documentazione e la scrittura mi hanno portato a concentrare l’attenzione sul momento presente e ad amplificare la capacità di ascolto. Diventano uno strumento di liberazione per il soggetto intervistato e l’intervistatore. Entrambi si sottopongono a un’’analisi personale’. Entrano uno spazio intimo di ricordi, esperienze vissute, e sono registrati in quell’istante come traccia indelebile. Non si può tornare indietro. Come donna, ho imparato a lasciarmi andare, ad ascoltare attivamente l’altro per capire cosa mi mancava. Mi sono relazionata con coppie e individui che potessero dialogare col mio dolore e confusione, per essere ciò che ero in quel momento, una donna che aveva perso la fiducia in se stessa, che non stava bene e che confondeva l’abuso con l’amore. Ho scoperto il valore dell’empatia, la comprensione, il rispetto, la fiducia, la condivisione dei sentimenti senza paura di essere sopraffatta, giudicata, umiliata. L’ascolto attivo mi ha aiutato ad elaborare i pensieri e i sentimenti, a rivedere la ‘relazione d’amore’ con un approccio realistico, non di ‘trappola della mente’. Ho preso coscienza della mancanza di rispetto e valore per me stessa e a pensare di meritare attenzioni più sane, soprattutto da parte mia. Ho acquisito consapevolezza dei miei meccanismi psicologici per poter attuare un cambiamento personale che spero possa essere di aiuto agli altri. Come artista sono uscita dalla mia zona di comfort abbracciando diverse discipline. Era la prima volta che mi aprivo alle interviste e scrivevo domande, poemi e pensieri. Sono felice di essere riuscita a coinvolgere con la mia storia, 25 persone, la maggior parte sconosciute, che mi hanno accolto con rispetto nelle loro case, per dialogare intimamente su temi quali l’amore, il sesso e la relazione abbracciando anche la questione dell’abuso. Tutto questo è avvenuto in modo molto spontaneo e ha creato le basi per la realizzazione di un progetto personale e poi collettivo che ha avuto la forza di trasformare il dolore e la sofferenza di una donna violata in una risorsa, un libro di testi e fotografia, il mio primo progetto editoriale. Tradizionalmente, un fotografo cerca immagini che raccontano il suo soggetto. Il mio approccio, nel progetto, è stato piuttosto quello di scoprire come i soggetti potessero ritrarsi e rappresentare la propria relazione. E tutto questo mi ha dato l’opportunità di crescere ad ogni incontro. Mi rendevo conto che mi faceva bene, perché il cuore del mio lavoro è stimolare la riflessione su ciò che è essenzialmente umano.

La condivisione di esperienze aiuta a non sentire che la nostra esperienza é unica e non siamo sole. É pieno di donne di qualsiasi età che hanno esperienze simili. Vuoi condividere con noi la tua personale rivoluzione e cosa ti è successo?
Qualsiasi cosa ci succeda, prima o poi, se osservata con cura e attenzione, diventa una trasformazione personale e poi sociale. Nel 2015 mi ‘innamoro’ di Laszlo. Provo una strana attrazione verso di lui, che non riesco a capire né a controllare. È spesso ubriaco e violento, appassionato di pornografia. È lì pronto ad accusarmi, umiliarmi, offendermi. La relazione con lui mi ricorda quella con i miei genitori, quando ero adolescente. Ma questa volta è diverso. Sono consapevole della violenza in atto in una relazione ‘d’amore’. Non so cosa sia successo, forse un miracolo, un risveglio, una nuova coscienza. In love, sex and relationships, a distanza di anni, da spettatrice guardo alle tante donne che lo hanno animato: la donna che soffre, quella che fa le domande e vuole esplorare “che cosa è l’amore?”, quella che guarda ai propri pensieri negativi e paure, la sognatrice che continua a farsi del male sperando che tutto cambi, la crocerossina che si sacrifica per il bene dell’altro, l’intervistatrice dei 25 sconosciuti, la fotografa, la videografa, la trascrittrice delle interviste, la correttrice di bozze, quella che fa la post-produzione dei 16 video, l’artista che scrive e interpreta il monologo – Do you love yourself?, l’autrice che assembla il tutto in un lavoro-libro di arte collettiva e la donna che rinasce più forte, dopo anni, attraverso un processo di trasformazione di se stessa dove la conversazione con l’altro, la fotografia, la video-documentazione e scrittura diventano mezzi di conoscenza per capire che quello che le manca è proprio l’amore per sé stessa. Forse l’intuizione conduce alla pura azione. Si è guidati da un’entità divina che porta a fare cose che non si pensava di essere in grado di fare, senza che un dubbio o pensiero logico ci blocchi. Si cerca una via d’uscita dal dolore all’esplorazione di un mondo al quale da sola non riesci a dare un senso. Il lavoro di self-observation mi è stato di grande aiuto. La fotografia, la video documentazione e scrittura, a lungo termine, si sono rivelate terapeutiche. All’improvviso mi sono data la possibilità di guardare il dolore e la violenza che, in primis, stavo facendo a me stessa senza che ‘io lo sapessi’. Iniziavo a separarlo da me. Tutto è un processo. Scrivo i pensieri su pezzi di carta che conservo nel cassetto della scrivania, registro la voce delle trappole mentali sul cellulare. Faccio dei disegni, sono sanguinanti. Mi ri-ascolto. Chi è quella donna che chiede aiuto? Inizio a parlare con lei. Ascolto il suo mondo interiore, osservo i suoi pensieri, le emozioni negative: la rabbia, la gelosia, la confusione, l’impotenza, la tolleranza nell’accettare una situazione dalla quale non riesce ad uscire perché dipendente di attenzioni e amore malato. Inizio ad avere dubbi: forse sono io che mi tratto male? Dal niente, inizio a scrivere delle domande. Sono quaranta. La prima è: “che cosa è l’amore?” Per la prima volta mi chiedo cosa sto vivendo: se questo discutere, incolparsi, offendersi, picchiarsi, non capirsi a vicenda fosse quello che io chiamo amore. Spesso siamo i peggiori nemici di noi stessi. Siamo esseri umani imperfetti, con meccanismi automatici di pensiero contorti, che ci portiamo dietro sin dalla nascita e che si manifestano in emozioni incontrollate. Nemmeno dopo anni di psicoterapia siamo esenti dal ripetere comportamenti disfunzionali che ormai conosciamo bene e ci causano problemi. Il rispetto di sé, quindi. Ascoltarsi e seguire di più quello che sentiamo, accettarsi anche se non sempre siamo come vorremmo. Rimane il fatto che dentro di sé ogni essere umanzo ha il potere di creare un mondo migliore per se stesso, anche se non ci crede o non sa come fare. E anche chiedere aiuto quando da soli non ce la si fa, è un gesto di grande forza e di rispetto verso se stessi. Per non arrivare ad escalation pericolose, ogni volta che secondo noi l’altra persona ci manca di rispetto, dobbiamo chiederci: io cosa faccio per farmi rispettare? Perché se è vero che non abbiamo il controllo sull’altro, possiamo decidere come vogliamo essere trattati, fino ad allontanarci da situazioni o persone che non possiamo cambiare e che non ci piacciono. E in caso di forte difficoltà, chiedere aiuto.

L’esperienza fotografica che proponi invita le persone ad abbracciare le proprie vulnerabilità, ad esplorarle ed accettarle come parte integrante della forza, uno yin e yang visivo che dimostra come mettere a fuoco le esperienze aiuti a creare consapevolezza. Cosa é scattato in te, ad un certo punto della tua vita e della tua relazione?
La presa di coscienza di non essermi voluta bene e di aver consentito agli altri di abusare di me. Mentre discutevamo animatamente, mi ha messo un cuscino in faccia. Forse voleva soffocarmi o dimostrare di potermi sottomettere. Ero stesa sul letto. Lui su di me. Ho resistito, dimenandomi, ho cercato di colpirlo ma lui era fisicamente più forte. Non riuscendo più a respirare l’ho abbracciato, per tirarmi fuori dalla situazione. Due parole sono uscite per disperazione: Ti amo, gli ho detto. Lui ha tolto il cuscino dalla mia faccia e mi ha abbracciato: Ti amo, mi ha risposto. L’evento mi ha scosso. Mi sono svegliata da un lungo sonno e la mia mente si è aperta. Dagli occhi sono caduti veli che non pensavo di avere, lasciando spazio a una lucidità. Perché sono innamorata di quest’uomo? Le dinamiche erano le stesse. Meccanismi di auto-difesa ci portavano ad agire mettendo in atto comportamenti automatici e reazioni emotive spiacevoli, portando il mio ex-partner ad accusare e io a difendermi. Hai trasformato una creatura gentile in una bestia – mi diceva. Ma cosa scatenava la dipendenza affettiva in questo caso? Leggo “ la dipendenza affettiva affonda le sue radici nell’infanzia, nel rapporto con chi si è preso cura di noi. Coloro che diventano affettivamente dipendenti probabilmente da piccoli hanno ricevuto il messaggio di non essere degni di amore e che i loro bisogni non sono importanti”. Da li la ricerca su me stessa, il rapporto con i miei genitori che intervisto e fotografo, e una domanda che sempre con più insistenza ha occupato la mia giornata per anni: che cosa è l’amore? Esco fuori di casa con le mie due macchine fotografiche alla ricerca di aiuto che in quel momento solo io posso darmi.

Cerco degli sconosciuti con cui parlare.

In che modo la pratica artistica, nel tuo caso la fotografia, diventa una forma di cura?
Nel 2009 ho trovato la mia prima macchina fotografica, una Praktica 35 mm con tre lenti in una borsa lasciata per terra vicino al bidone della spazzatura in Florida Street, Bethnal Green, Londra. Un regalo caduto dal cielo. A quel tempo non sapevo cosa fosse la fotografia. La stessa sera, eccitata, ho cercato online un corso base di fotografia analogica per poter capire come poterla usare. Dopo un paio di mesi mi sono appassionata e ho frequentato un corso full time di un anno al St Martin’s College of Arts, Professional Analog practice, dove ho scoperto l’analogico e la camera oscura, un mondo magico. Ho poi lavorato come paparazzo per 3 anni in strada dove ho sviluppato la grinta per potermi relazionare con gli estranei e le celebrità. Un mondo difficile popolato solo da uomini, la maggior parte di loro aggressivi. Mi chiamavano Cunt! tutte le volte che mi vedevano scattare una fotografia o mi spingevano facendomi a volta cadere per terra. In quel periodo la competizione era altissima. Nel tempo libero lavoravo su progetti con sconosciuti e proprio durante quegli anni ho imparato che la fotografia favorisce non solo il dialogo con se stessi, ma è anche un modo sicuro, per portare alla luce, col tempo, la propria interpretazione della realtà/mondo. La fotografia aiuta infatti a verbalizzare un vissuto doloroso o difficile da definire, aiuta a fare luce su zone d’ombra e ad avvicinare tematiche scomode da una distanza di sicurezza. L’esperienza emozionale viene trasformata in immagine simbolica ed è per questo che viene sempre più utilizzata nei percorsi terapeutici, a cui sono interessata. Ho sempre considerato la fotografia come una sorta di attivazione al gioco – lasciarsi andare davanti alla macchina fotografica. Grazie alla fotografia ogni persona che la utilizza come processo terapeutico è in grado di osservare i propri sentimenti e pensieri, mettendo così le radici per un cambiamento. Fotografare permette di individuare i pensieri ricorrenti, gli schemi fissi di ragionamento e di interpretazione della realtà. Aiuta a correggersi, ad arricchirci e ad integrare pensieri più realistici, funzionali al proprio benessere. Nel mio caso la macchina fotografica è stata quel mezzo che mi ha portato ad uscire dal disagio, a trasformare il dolore in risorsa. Una necessità nell’immediato, un bisogno di ricerca di dialogo e confronto con lo sconosciuto di me che nel lungo termine ha portato ad un processo di auto-osservazione, consapevolezza e rinascita.

Per questo progetto hai incontrato ed intervistato molte persone. Come sei entrata in contatto con loro e abbattuto le barriere? In che modo hai costruito la fiducia necessaria per farti raccontare le loro esperienze?
Ognuno di noi ha dei talenti e uno dei miei talenti è quello di riuscire a connettermi con una persona nell’immediato. All’età di 18 anni ho lasciato casa. Studiare Economia e Commercio a Bologna, lavorare in un bar messicano per mantenermi e vivere in una stanza Erasmus sono stati avvenimenti che mi hanno aiutato nel percorso. Non ho mai avuto paura dell’estraneo ma sono spesso preoccupata intorno a gente che conosco forse perché sono proprio le persone più vicine che mi hanno ferito. Anche a Londra, dove ho scoperto la fotografia, ho abbattuto barriere legate alla lingua straniera che all’inizio non parlavo, alla timidezza e al rifiuto diventando proattiva per non scoraggiarmi. Non mi sono mai fermata davanti a un ostacolo. All’inizio del percorso ho cercato incontri mettendo annunci online. Poi, man mano che diventavo più sicura di me li ho cercati anche per strada e molte volte sono andata a incontrarli nelle loro case. Man mano che il tempo passava ho iniziato a provare piacere, avevo l’opportunità di entrare in mondi nuovi e la cosa mi incuriosiva. Riuscivo a imparare nuove cose, ascoltare le loro storie mi arricchiva. Mi sono sentita sempre una donna privilegiata perché fotografare la fragilità umana è un dono sacro. Poter ascoltare e soprattutto registrare le emozioni umane è un’esperienza intima che richiede attenzione, empatia, fiducia e rispetto. Permettendomi di essere fisicamente ed emotivamente vulnerabile, li incoraggio ad affidarmi le loro vulnerabilità. Si presentano senza alcuna imposizione. Può accadere di tutto. Sono rilassata. Assumo più il ruolo di confidente, sono un’amica. Non porto con me assistenti o luci aggiuntive. L’esperienza viene condivisa, condivido il controllo del mezzo fotografico su dove, come e quando usare la macchina fotografica, dando libertà di espressione all’incontro e coinvolgendoli nel processo creativo dell’immagine. Scatto o registro anche se l’inquadratura proposta o la luce non sono adeguate. Lascio accadere. È un’improvvisazione. Il processo dunque diventa spontaneo, naturale, un’esperienza umana da vivere e condividere. L’altro è uno specchio. Penso che la fiducia sia molto vicino all’amore. E donare fiducia in modo sincero porta l’altro a fidarsi di te. Lo senti quando qualcuno è genuinamente interessato a te e alla tua storia. Ti affidi completamente all’altro, una qualità di profondo abbandono che stranamente avviene solo nel momento in cui ho una macchina fotografica tra le mani.

Intervistando le persone quali sono state le risposte più frequenti quando hai chiesto cos’era per loro l’amore? Che risposta ti ha catturata di più?
L’amore è chimica, l’amore è una droga. L’amore è potere, l’amore è rispetto, l’amore è vulnerabilità, l’amore è desiderio, l’amore è piacere, l’amore è sacrificio, l’amore è compromesso, l’amore è incondizionato, l’amore parte dai genitori, l’amore è un bisogno umano, l’amore è dipendere dall’altro, l’amore va guadagnato, l’amore è gelosia, l’amore è sofferenza, l’amore è creatività, l’arte è amore, ognuno di noi nasce amore, l’amore fa paura, l’amore è accettazione …. La risposta che mi ha incuriosito di più è di Joakim: “Devi sperimentare l’amore; non puoi spiegarlo a parole. È così: qualcun altro, da qualche parte nel mondo, ha la chiave della tua scatola emotiva, e loro non sanno di avere quella chiave – finché non la tirano fuori e la girano, e poi tu hai qualcosa che non hai mai sperimentato prima… non riesco a spiegarlo. L’unica cosa che so e che sono certo è che ti fa impazzire!”.

Se ripensi alla tua relazione e pensi a te oggi, quale definizione dai all’amore?
L’amore è indefinibile. Sicuramente non lo si può pensare, non basterebbero tutti i pensieri per contenerlo, non lo si può definire perché il definirlo lo racchiuderebbe all’interno di una scatola sopprimendone la libertà di espressione, poiché l’amore non ha limiti. L’amore è esperienza soggettiva e va vissuto interamente e non dimenticato. È raro. Ho capito cosa non è amore perché essendo l’amore ignoto, devo giungervi scartando il noto, quello che ho conosciuto. L’amore non è gelosia, piacere, desiderio. L’amore non è ambizione, violenza, rabbia, aggressività. Il possesso non è amore. Rabbrividisco ogni volta che sento dire, tu sei mia! L’offesa, l’umiliazione, le botte, il controllo, accusare, biasimare, la non-comunicazione, il non supporto emotivo e psicologico è non-amore come la guerra, la diseguaglianza, l’indifferenza, la non empatia e il pregiudizio. L’amore non è sentimento, essere sentimentali o essere emotivi non è amore poiché il sentimentalismo e le emozioni sono sensazioni. Non vi è amore quando non vi è rispetto reale, quando noi stessi, non rispettiamo l’altro, sia egli un servo o amico. Dove non c’è misericordia, pietà, perdono non c’è amore. Lasciare che una persona sia ciò che davvero è … potrebbe essere ‘amore’. Quella fiducia di poter dire tutto su te stessa, compreso le cose che ci potrebbero far vergognare.

Il libro non è ancora uscito. Ma pensando alla sua pubblicazione, chi vorresti che leggesse il tuo libro e perché?
In primis, mi piacerebbe che lo leggesse il mio ex-fidanzato. Se questo lavoro è nato è grazie alla nostra relazione d’amore, durata nove mesi, periodo di gestazione in cui si è verificato il processo alchemico della trasformazione della merda in oro che, nel mio caso, ha tramutato il percorso doloroso e illuminante della relazione violenta, in un libro che potesse contenerlo, il mio primo figlio. Mi piacerebbe che lo leggessero le donne, come pura condivisione di un’esperienza femminile vissuta da un’altra donna e apertura al dialogo. Quelle donne che sono in una relazione sentimentale tossica e si sentono confuse, sole, perse, disperate senza una via d’uscita. Non hai la capacità di pensare lucidamente in una trappola che ancora non conosci. Potrebbero leggerlo le donne che hanno già vissuto relazioni tossiche e ne sono uscite. Quelle donne che hanno guardato al loro dolore, e sono più consapevoli della loro forza. Quelle donne che hanno riacquistato autostima e consapevolezza e pian piano si stanno ricostruendo. Mi piacerebbe che lo leggessero gli uomini, soprattutto quelli violenti, per capire cosa sentono, cosa ne pensano. Che cosa è l’amore per loro? Anche loro soffrono. Mi piacerebbe che lo leggessero un po’ tutti, abbraccia diverse relazioni: dalle eterosessuali alle omosessuali, bisessuali, madri singole, divorziati etc …. chi per curiosità, chi per riflessione, chi per comprendere più se stesso. Nel lavoro ho racchiuso la mia ricerca dell’amore che continuerà all’infinito e quella delle 25 persone intervistate, rendendola eterna in un libro e in uno scatto fotografico. In questi anni, qualche coppia intervistata si è lasciata e mai più vista, altre hanno divorziato, qualcuno ha lasciato questo mondo, come Richard. Certo è che sono rimaste molte cose: un libro con un contenuto vivo, intimo, fragile, profondo e delle fotografie in bianco e nero. Qui il tempo si è fermato, una documentazione di un momento presente che mai potrà essere cancellata. Oggi, rileggendolo, a distanza di anni, sono cambiate tante cose. Prima di tutto sono cambiata io e il rapporto con me stessa. Lo rifarei in modo completamente diverso, forse non lo pubblicherei. Ho preferito però lasciarlo così, senza cambiare niente, come una traccia di un percorso di una donna fragile in un tempo presente che mai tornerà ad essere uguale. Ho voluto lasciare l’autenticità, con tutta la sua umana fragilità e imperfezione. Spero che questo lavoro possa far riflettere sulla forza della vulnerabilità. Essere forti forse non è il solo modo per risolvere i problemi. E se fosse invece la vulnerabilità la nostra vera arma per vivere una vita coraggiosa e superare le difficoltà? Il reale coraggio di vedersi e sentirsi come siamo davvero, anche incerte, dubbiose, impaurite.

Come ti rapporti al concetto di femminismo e alla necessità di abbattere le barriere del patriarcato tramite il racconto dell’esperienza femminile?
Oggi sono una donna libera che ha perdonato se stessa. E invito tutte le donne che leggeranno questa intervista ad essere sempre sé stesse: intense, tenaci, libere e pronte a tutto per raggiungere i propri scopi.
Per cambiare la condizione delle donne non basta l’accesso al voto e riconoscimenti formali. Occorre piuttosto un mutamento profondo del tessuto sociale, nei rapporti e nelle convenzioni. Bisogna perseguire e diffondere un’educazione che pone sullo stesso piano i generi maschile e femminile sin dalla nascita. Creare delle scuole che possano educare i bambini all’amore, che poi diventeranno genitori capaci di amare. Senza che alcuna divisione di ruoli e modelli possa trovare una giustificazione. Perché come afferma Simone Beauvoir nel Secondo Sesso – Donne non si nasce, lo si diventa. Nel percorso di liberazione che una donna intraprende con se stessa, deve prima di tutto fare i conti con una società che ha disconosciuto per secoli una reale parità intellettuale tra uomini e donne. Ancora oggi, sulle spalle di una donna pesa il fardello di una tradizione secolare, che nessun movimento femminista può cancellare dall’oggi al domani. Ma se vogliamo essere donne libere, non possiamo fuggire la complessità, non possiamo arenarci su una spiaggia di slogan a senso unico. Dobbiamo riconoscere e accettare le nostre fragilità e partire da li. Come riusciamo a vedere e a mantenere un’autenticità che vada al di la delle rappresentazioni che ci vengono imposte? Nasco da una famiglia disfunzionale, con genitori e fratelli disfunzionali con i quali non ho un rapporto sano, ancora oggi. L’unica con cui mi relaziono è mia sorella. Una famiglia con padre e fratelli patriarcali che hanno onorato la tradizione e di cui la società, politica, economia, religione ne è impregnata, specialmente qui in Italia. Sono scappata di casa all’età di diciotto anni e sono cresciuta fuori. Sono la primogenita di quattro figli, nata nella realtà del Sud d’Italia, alle quali hanno dato un sacco di responsabilità, prima tra tutte quella di prendermi cura dei miei fratelli più piccoli e della casa quando i miei non c’erano. Avevo otto anni. Ricordo ancora il cambio dei pannolini e la mia difficoltà, minuta com’ero, a tenere mio fratello tra le braccia. Venivo spesso rimproverata e sminuita, non sei capace, tua sorella è più brava di te … etc … Non sto adesso a raccontavi la mia vita. Ho avuto una madre-padrona, maniaca del controllo, spiava ogni mio movimento, seguendomi ovunque quando uscivo con le mie amiche o il fidanzato. Ho avuto anche un padre-padrone, al quale ho sempre disobbedito e mai dato la soddisfazione di vedermi piangere. Poi si sono separati, troppa violenza anche tra di loro. Nell’adolescenza, il delirio impera: gli scontri, la paura, i sensi di colpa, le offese, le botte, l’impotenza. Mi sentivo violata nell’anima, nei miei diritti di donna, la mia libertà. La famiglia per me non era una casa sicura. La bellezza interiore cedeva il posto all’aggressività, alla rabbia, all’odio che poi si riversavano nelle relazioni d’amore, specialmente con gli uomini sotto forma di dipendenza emotiva e gelosia. La violenza, la prevaricazione, le minacce ci chiudono in un manicomio mentale dove i pensieri negativi diventano ossessione. Chi subisce violenza o maltrattamenti ne porta i segni a lungo, sia sul corpo che nella psiche. La violenza rappresenta un problema di salute enorme, molte volte sottovalutato. Non è semplice, per chi ha vissuto situazioni di violenza, uscire da una realtà relazionale che in qualche modo ha assunto una sua forma di ‘equilibrio’. Un ‘equilibrio’ disfunzionale, doloroso, ma pur sempre un equilibrio ‘conosciuto’, ‘familiare’, e che in quanto tale dà l’illusione di poter essere gestito. Ma in questo presunto equilibrio molto spesso la ‘vittima’ ha perso il senso di sé, della propria identità e della propria realtà relazionale, della propria agentività. Ci si trova intrappolate in dinamiche relazionali dalle quali è difficile uscire. L’esperienza vissuta mi ha portato oggi a condividere questa mia esperienza femminile racchiusa nel libro di love, sex and relationships che spero possa aprire un dialogo su come l’abuso emotivo e psicologico, così come quello fisico sia completamente distruttivo del senso di sé e come il rispetto per se stessi, in primis, sia essenziale per la nostra crescita personale. Per iniziare a pensare di uscirne bisogna riconoscere la violenza, che non è amore, e riconoscere che è ingiusta, non tollerarla. Riconoscere che non è frutto della propria debolezza, incapacità o colpa. La violenza è sempre responsabilità di chi l’ha agita, non è mai colpa di chi la subisce. Dopo aver riconosciuto la violenza si può iniziare a parlarne. A volte si è in condizioni di isolamento e private di contatti sociali. Oppure ci si scontra con stereotipi duri a morire – la donna angelo deve tenere su il marito e la famiglia – stereotipi che rendono impossibile un ascolto vero e portano a volte amici e parenti a ostacolare (magari in buona fede) la possibilità per le donne di parlare e proteggersi. Esprimersi è fondamentale. Qualsiasi forma d’arte fa bene, parlare fa bene, scrivere fa bene, la meditazione fa bene. Ci porta a esprimerci liberamente, a lasciare segni del nostro percorso per poi rileggerli con distacco e comprenderci meglio, da soggetto-oggetto-osservatore-spettatore. Essere una fotografa mi ha aiutato. Ho trovato nella macchina fotografica un’amica per poter uscire fuori dalla solitudine e cercare oltre al dialogo con me stessa conversazioni intime con l’altro che mi hanno aiutato a confrontarmi con paure, dubbi e il dolore. La fotografia può certamente aiutare. Quando si fotografa ci si concentra sulla realtà presente e questo può allontanarci da ansie e pensieri negativi. La mindfulness in fotografia diventa terapeutica perché fornisce una maggiore consapevolezza del mondo, di sé e come interagiscono. Ma soprattutto è importante saper sviluppare un sano rapporto con se stesse, non avere vergogna di parlare della propria esperienza personale, condividere le proprie emozioni, le proprie fragilità che non sono debolezze. Il raccontarsi può essere fonte d’ispirazione per altre donne e uomini ad attuare dei cambiamenti personali e acquisire maggiore forza e fiducia portandoci a riconoscere i comportamenti disfunzionali all’interno della relazione e a non dipendere dal nostro carnefice. A non sentirci più in colpa ma a iniziare a pensare alla donna che è in ognuno di noi, libera di potersi amare e accettare per quello che è.

Fra i tuoi lavori uno in particolare mi ha incuriosita: “I am your mirror”. Vuoi approfondirlo con noi, magari osservando una o piú immagini in particolare?
Nel progetto fotografico di i am your mirror, decido di esplorare le paure e ossessioni. Era il 2103, vivevo a Londra. Avevo sviluppato forti pensieri ossessivi e paure. La mia mente era diventata un accumulo di pensieri velenosi. Non avevo pace. Mi sentivo sola e incompresa. La ripetizione era deleteria e io cercavo il silenzio. Da li la pratica della meditazione e la necessità di creare un progetto fotografico che mi aiutasse ad acquisire più coraggio e fiducia e a riappropriarmi di quella autostima, identità e forza che avevo perso. Il progetto inizia con un’annuncio online su gumtree.com alla ricerca di persone che vogliono partecipare ad un progetto fotografico e che avessero ossessioni, paure, difficoltà ad esprimere se stesse esattamente come lo ero io. Cerco il simile a me, quello che può rappresentare la mia paura, lo sconosciuto. Qualcuno, dopo qualche giorno, inizia a rispondermi. Sono per lo più uomini. Voglio incontrare dodici sconosciuti più me stessa. È il mio primo progetto fotografico e non sono proprio a mio agio. Con la macchina fotografica li incontro dove vogliono e fotografo quello che vogliono darmi. Sono nel buio. Scatto in analogico. Non so in quale situazione sarò, quale immagine scatterò, chi incontrerò, come reagirò, cosa succederà ma stranamente non ho alcun pensiero negativo. Mi fido di me. Poi, chiedo loro di scrivere qualcosa su un foglio di carta e di spedirmi una mail con il loro pensiero. Da qui inizia il mio viaggio con la macchina fotografica verso un mondo sconosciuto, l’esplorazione di me attraverso gli altri, esattamente come uno specchio, un riflettersi, un osservarsi colmo di bellezza e bruttezza, buio e luce, paura e amore. Alcuni li incontro in casa loro, altri nella mia o in una foresta, ovunque. Tutto avviene nell’immediato e accade spontaneamente. I tempi sono ristretti. Io sono aperta come un diaframma a lasciare tutto esplodere. La macchina fotografica diventa testimone attivo di una performance dal vivo, in un preciso momento. Qualcuno mette in scena uno stato d’animo o una parte di sé che diventa realtà: chi si spoglia, chi si traveste, chi ha un’erezione, chi vuole fare sesso … Mi sono chiesta: cosa ho veramente rappresentato con una fotografia?
i am your mirror è energia, liberazione terapeutica. Con la fotografia possiamo schiudere delle porte ma possiamo anche disturbare noi stessi, proprio come quando ci guardiamo allo specchio. Ci piace quello che vediamo?

Viviamo in un’epoca complessa se si parla di diritti e uguaglianze. Vorrei lasciarti uno spazio per parlare liberamente alle nostre lettrici photographer.
Uguaglianza implica il rispetto della pluralità dei valori che rendono ricca la vita in una società. E la prima condizione per procedere in questa direzione è non umiliare l’altro. Esiste, come dice Krishmnamurti, una ribellione intelligente che non è reazione, ma che viene con la conoscenza di sé attraverso la consapevolezza dei nostri pensieri e sentimenti. Solo affrontando l’esperienza cosi come si presenta, senza evitarne gli aspetti negativi, possiamo mantenere l’intelligenza veramente sveglia; e l’intelligenza attiva al suo grado più alto è l’intuizione, che è l’unica vera guida nella vita. Per che cosa viviamo e lottiamo? Questa è la prima domanda da porsi. L’arte è la forma più potente di denuncia della violazione dei diritti dell’umanità. Come fotografe e artiste donne abbiamo una forte responsabilità, quella di poter documentare le storie, i sogni, la nostra sofferenza e quell’altrui, i nostri ideali come arricchimento e crescita intellettuale e umana che possano poi essere usate come denuncia per attuare cambiamenti non solo personali ma anche sociali. Stranamente però le donne finiscono nell’ombra e questo capita anche nel mondo dell’arte. Vi invito a guardare ai lavori di Helen Levitt, Anna Wilke, Lucia Marcuzzi, Cloti Ricciardi, Francesca Woodman, Margaret Bourke-White, Diane Arbus e i suoi famosi ritratti degli emarginati della società, Ana Mendieta, con le sue fotografie che catturano strutture opprimenti e la violenza maschile contro le donne, Shirin Neshat e le sue interpretazioni complesse del femminismo e della cultura musulmana … ma ce ne sono tantissime altre. Amiche, vi invito a raccontare e raccontarvi con coraggio con qualsiasi forma d’arte, qualunque essa sia. Scattare una fotografia non significa banalmente spingere un pulsante, bensì dare vita ad un incontro intimo del sé con il mondo esterno che si realizza a partire da uno sguardo contemplativo. Riconoscere a questa realtà la possibilità di nutrire la conoscenza introspettiva significa, quindi, in primo luogo allontanarsi da quell’atteggiamento di rapida e superficiale fagocitazione d’immagini promosso dalla nostra società contemporanea, per riscoprire la lentezza di uno sguardo meditativo che ci aiuti a sentire in noi la realtà esterna. Esemplare in questo senso è la metafora utilizzata da Cartier-Bresson che si è paragonato ad un arciere zen che deve diventare il bersaglio per riuscire a colpirlo: «bisognerebbe pensare prima e dopo, mai mentre si scatta». Adottare uno sguardo meditativo significa, infatti, liberare la mente dal pensiero razionale per consentire all’essere di diventare, come dice Bresson, o identificarsi, come dice White, nella realtà osservata, permettendone il ri-conoscimento. Buon lavoro a tutte voi!

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